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DISCORSO PRONUNCIATO DAL PROF. DAVIDE DI GIUSEPPE A LAVENO IN OCCASIONE DEL XXV APRILE 2024 

 Città, città di fuoco, resisti Città, città di fuoco, resisti finché un giorno arriveremo, indiani naufraghi, a toccare le tue muraglie con un bacio di figli che speravano di tornare.
Così si esprime Pablo Neruda nel 1952 con i versi di questa famosa poesia.
Le sue parole hanno il sapore della profezia nella loro abbagliante eloquenza.
Neruda faceva parte di un popolo, quello cileno, che si era battuto per la libertà, che aveva combattuto per l’uguaglianza e la democrazia, e che infine aveva subito una dittatura feroce e vergognosa all’altro capo del mondo. In realtà, tuttavia, la città di cui parla il poeta cileno non è la sua Santiago: è Stalingrado, teatro della battaglia forse decisiva nella Seconda guerra mondiale, quella che avrebbe indirizzato le sorti del conflitto più tremendo che l’umanità abbia mai conosciuto.
Resistere o morire.
Restare attaccati alla flebile speranza di un mondo nuovo o perdere tutto.
Credere nella possibilità della pace guardando nel fondo di un pozzo profondissimo oppure rassegnarsi a sparire in silenzio nella notte nera.
Che cosa significa ai giorni nostri la parola Resistenza?
Qual è per noi la nostra Stalingrado?
Nella stessa poesia Neruda scrive ancora: Volete più morti sul fronte dell’Est finché riempiano tutto il vostro cielo?
Ma allora non vi resta che l’inferno.
Credo che oggi resistere significhi non rispondere alle provocazioni, non reagire alla violenza con altra violenza e cercare con tutte le forze il dialogo.
Resistere significa trovare un punto di accordo, un approdo di quiete nell’oceano di differenze e contraddizioni che ci separano.
Resistere significa opporsi all’escalation che sia in Ucraina che a Gaza sembra paventarsi.
Resistere significa dunque scongiurare con ogni mezzo la distruzione del mondo e l’annientamento del genere umano.
Spesso il cinema ha avuto la capacità di anticipare le tematiche dell’attualità, in particolare la fantascienza nel corso dei decenni ha prodotto film visionari.
Ricordo quando alcune pellicole a metà degli anni ‘90 preannunciavano l’avvento degli invasori alieni, che oscuravano il cielo con l’immensità delle loro astronavi.
In quel momento tutta l’umanità trovava la forza di unirsi, riscopriva il suo senso profondo, la sua vera natura, e combatteva fino allo stremo per scacciare il nemico comune.
Se mi è concesso un passaggio audace dalla cinematografia alla Storia, popoli che fino a un istante prima si erano combattuti e uccisi, di fronte a un nemico più grande seppellivano l’ascia di guerra e affrontavano il pericolo che rischiava di spazzarli via.
Noto è il caso di Atene e Sparta, per anni acerrime nemiche, quindi alleate per scongiurare la minaccia persiana.
Ebbene, forse non ce ne rendiamo conto, o facciamo finta di dimenticarcelo, eppure sull’umanità incombe un terribile nemico comune e un’ombra spaventosa oscura già il nostro cielo.
Naturalmente non si tratta di un’astronave aliena: la minaccia che rischia di spazzarci via nel giro di pochi decenni si chiama surriscaldamento globale, crisi climatica, inquinamento, e semina ovunque i cavalieri della sua apocalisse: carestia, fame, malattia, morte.
Se non ci uniamo per fronteggiare questo pericolo, saranno soprattutto i più fragili a pagarne le conseguenze, milioni di persone perderanno la vita e altri milioni tenteranno di conservarla, la vita, attraverso migrazioni oceaniche.
Sembra infatti che, per ritrovare l’armonia e la concordia, i popoli abbiano bisogno di una grande catastrofe che li inchiodi ai loro limiti, che ne svuoti l’orgoglio e li costringa alla pace.
Lo abbiamo fatto dopo la Seconda guerra mondiale, quando almeno l’Europa ha raccolto l’invito di Immanuel Kant che aspirava ad un organismo europeo come garanzia di una pace perpetua.
In quel momento è nata anche la nostra Costituzione, il cui articolo 11 ci ammonisce che “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”.
Senza la pace non è possibile né progresso né prosperità, e senza prosperità è escluso che si realizzi la felicità di qualunque popolo e di qualsiasi individuo.
Qualche anno fa mi sono imbattuto in una delle pagine più toccanti che abbia mai letto: si trova nel romanzo Venuto al mondo di Margaret Mazzantini.
Racconta il momento in cui la protagonista si trova in un obitorio di fronte alla salma di un bambino, appena freddato da un cecchino, una delle innumerevoli vittime di quell’orrore che travolse la ex Jugoslavia dal 1991 al 2001.
Ne avrei selezionato qualche stralcio.
“Poi mi accorgo del bambino, è la salma successiva, dopo una barella vuota.
Sembra un bambino blu. Sì, ha quel pallore leggermente celeste dei santi in chiesa.
È composto, non ha sangue sul viso, e ha quel genere di capelli che restano sempre in ordine, ruvidi, tagliati corti, come un cappello di pelo… sono così vivi che mi sembra di sentirne l’odore, quello della testa un po’ sudata sotto, di bambino che ha giocato.
È una lucertola blu, questo bambino.
Un piccolo santo. Dev’essere morto da poco, da pochissimo.
Mi avvicino per guardarlo meglio, non c’è nessuno con lui. (…)
Dovrei andarmene perché sento che non mi salverò più da questa visione, che questo bambino entrerà in me e che uscirà solo quando anch’io morirò.
Sarà l’ultima cosa che vedrò, e la prima che vorrò raggiungere, dopo, quando cercherò le unghie di questo bambino nel volo azzurro delle anime.
Non mi chiedo dov’è sua madre, perché non è qui a piangere, forse è morta anche lei.
Perché adesso sono io la madre del bambino.
Ora io avrei la cura per i potenti del mondo, per gli uomini in giacca e cravatta intorno al tavolo della finta pace.
Bisognerebbe posare il bambino blu su quel tavolo.
Dovrebbero restare chiusi in quella stanza, senza potersi muovere.
Restare.
Vedere la morte che fa il suo lavoro metodico, che se lo mangia da dentro.
Distribuire panini, sigarette, acqua minerale, e lasciarli lì, mentre il bambino si svuota, si decompone fino alle ossa.
Per giorni.
Per tutti i giorni che ci vogliono.
Questo esattamente farei.” Resistere oggi significa opporsi alla tentazione della guerra in nome di milioni di padri e madri, di figli e figlie che meritano di vivere, di camminare su questa bella terra, di respirarne il profumo.
In nome di un’unica religione, della sola ideologia per cui dovremmo batterci, che si chiama UOMO, al di là delle nostre trascurabili differenze, degli inutili contrasti, degli insopportabili egoismi.
In questo 25 aprile la memoria corre inevitabilmente a ottant’anni fa, quando il coraggio di pochi si è opposto alla crudeltà di molti.
Anche allora la terra era insanguinata dalla follia delle armi, e vi era un regime liberticida che pretendeva di soffocare ogni soffio di libertà, ogni spiraglio di umanità.
Ci sono stati uomini e donne che hanno dato la vita affinché le generazioni future potessero godere del privilegio immenso della libertà, motivo per cui i governi hanno giurato che mai più si sarebbero fatti trascinare in un’inutile strage.
Migliaia di vite sacrificate in nome della libertà e della pace, nella speranza di costruire un nuovo mondo basato sulla concordia, sul rispetto reciproco e sulla tolleranza.
In nome di questi eroi, grazie ai quali oggi siamo qui e godiamo della libertà di esprimere le nostre opinioni, giuste o folli che siano, di ritrovarci insieme, di manifestare e di camminare senza paura per le strade, credo sia indispensabile fare tuto il possibile per vivere in pace.
Possano dunque le nostre scelte evitare che siano i padri a piangere sulla tomba dei figli, nell’azione più immonda, scriteriata, immorale e contro natura che si possa immaginare: la guerra.
Davide Di Giuseppe